Nella fuga di Enea c’è la nostra salvezza: nel mito la condizione umana durante la pandemia
Pubblichiamo da Il Corriere della Sera del 24.03.2021.
C’è un uomo che arranca. È nel pieno del vigore fisico eppure barcolla perché con un braccio deve reggere l’anziano padre infermo, con l’altro sorreggere il figlio infante. Sta fuggendo dalla distruzione: la città è in fiamme alle sue spalle. Triste destino il suo: giunto alla maturità, deve condurre in salvo ciò che più ama e, nel farlo, può salvare soltanto ciò che riesce a caricarsi addosso. Tutto il resto deve essere abbandonato. Quell’uomo siamo noi.
Molti lettori avranno riconosciuto in questa eterna allegoria della responsabilità adulta l’eroico Eneache fugge da Troia con il padre Anchise caricato sulle spalle e il figlioletto Ascanio tenuto per mano. Rievoco questa immagine nella convinzione che non racchiuda soltanto una potente metafora della condizione umana ma anche un modello politico. Enea che mette in salvo la città perduta caricandosela sulle spalle è un archetipo, una forma originaria dell’umano. In essa è, dunque, racchiusa non soltanto un’estetica e un’etica ma anche una politica. L’eroe antico indica a noi anti-eroi contemporanei un progetto politico. Chiamiamolo il progetto Enea.
In cosa consiste? Per comprenderlo, dobbiamo passare dal mito alla cronaca. È di ieri la notizia che d’ora in avanti il criterio per le vaccinazioni sarà solo quello dell’età. Ciò significa salvare innanzitutto i più fragili, quelli che stanno legati da un filo sottile alla trama dell’esistenza, significa salvare il vecchio Anchise, a costo di doverselo caricare sulle spalle. Questo criterio implica niente meno che un’idea di umanità, di quale sia l’essenza dell’umano: gli esseri umani sono coloro i quali soccorrono i più deboli, gli svantaggiati, i malati, i feriti, gli infermi, gli anziani della specie (e perfino le forme di vita diversa dalla propria, animali, piante, fiumi). Tutte le specie animali proteggono i cuccioli ma nessun’altra specie custodisce i propri vecchi. Noi lo facciamo e in questo siamo umani.
L’archetipo non racchiude, però, soltanto un generico ideale umanitario. Porta con sé anche un preciso progetto politico. La città (polis) che si vuole rifondare avrà nella cura dei fragili, dei disagiati, nella riconoscenza verso i «nostri vecchi», uno dei suoi pilastri. Troia è perduta ma Roma custodirà gli anziani padri. In ciò, il fondatore della futura città è figlio del proprio padre.
C’è, però, una terza figura nell’archetipo di Enea e non va trascurata anche se, spesso, nelle statue che da secoli tramandano l’archetipo, è quasi nascosta dietro le gambe dell’eroe. Il figlio. Ascanio.
È di ieri l’altro la notizia che i nati nel 2020 sono stati soltanto 400 mila, meno della metà dei decessi. L’Italia, oramai lo sappiamo, fa sempre meno figli. In vent’anni c’è stato un decremento del venti per cento. Il saldo demografico è, di anno in anno, sempre più negativo. Se dipendesse da noi italiani odierni, il futuro della specie sarebbe l’estinzione.
Qui ci si misura con il punto critico dell’archetipo. Mettersi in salvo abbandonando l’anziano padre è disumano ma rischiare la propria vita per salvare il genitore senza avere un figlio da condurre per mano è gesto disperato. Ascanio, non Anchise, è, anche dal punto di vista strutturale, il fattore di sostegno del gruppo scultoreo. Nel momento stesso in cui si scopre figlio, Enea deve sapersi padre.
In questo punto precipitano anche le più evidenti implicazioni politiche del progetto Enea. Il mito dice alla cronaca che, mentre con una mano dobbiamo vaccinare i nostri anziani genitori, con l’altra dobbiamo fare tutto il possibile per riaprire le scuole dei nostri figli.
Questo nell’emergenza. Poi c’è altro, molto altro da fare con la «mano di Ascanio». Dobbiamo creare le condizioni affinché una società infeconda smetta di esserlo. Un minuto dopo averle riaperte le nostre scuole, dobbiamo progettare le scuole del futuro prossimo, investire su di esse in uomini, mezzi e idee (l’Italia si ostina sciaguratamente a rimanere tra le ultime in Europa per investimenti in istruzione). Dobbiamo, poi, garantire finalmente la parità di genere a cominciare dal mondo del lavoro perché, oltre alle fondamentali questioni di equità e giustizia, è oramai certo che la reclusione delle donne nell’ipotetico ruolo di madre contribuisce, fra l’altro, anche al calo delle nascite (il mito arcaico presenta solo padri e figli maschi ma è del tutto evidente che la sua versione attuale dovrebbe mettere al centro della scena le femmine).
Le conseguenze politiche dell’archetipo sarebbero numerose. Credo che bastino questi due esempi per comprendere che il tanto sbandierato patto tra le generazioni presuppone una politica che valorizzi e chiami alle loro responsabilità i genitori. Non parlo di politiche per la famiglia (che in Italia recano sempre un’untuosa patina confessionale) e so bene che i concetti di paternità e di maternità, nel loro significato più pieno e alto, non coincidono affatto con la mera generazione biologica. Ma chi altri potrebbe caricarsi sulle spalle il peso dell’enorme debito pubblico contratto durante la pandemia, senza scaricarlo interamente sulle future generazioni, se non i genitori di quei figli cui guarda il piano europeo per la next generation?
Ci sono molti modi di generare, ben oltre la riproduzione biologica. Il mito di Enea ci dice che, di fronte al dramma della distruzione, la politica dovrebbe fare appello a tutti coloro i quali, nelle forme e modalità più svariate, generano o hanno generato. Non si rifonda una città se la mano di Ascanio resta vuota.