Come sarebbe stata l’Italia con meno comunisti e più socialisti?

Di Emanuele Felice che ringraziamo per la bella analisi anche dal Veneto

Come sarebbe stata l’Italia con meno comunisti e più socialisti?

«Ricordi, libri da buttare, frasi da imputare, due bandiere dritte in faccia al sole», cantava Venditti in quella che definì la sua più bella canzone. Modena, del 1979, forse è davvero la più bella canzone di Venditti (merito anche del sax di Gato Barbieri). Parla della crisi del PCI. «E non c’è tempo per cambiare, tempo per scoprire una nuova illusione». Il passato di un’illusione è il titolo di un libro del 1995 dello storico francese François Furet, uno dei primi bilanci della parabola comunista del XX secolo, e forse tuttora il più riuscito. In quella storia globale – spesso cupa, o feroce, ma con qualche nota gloriosa (dalla vittoria sul nazismo al primo uomo nello spazio; la prima donna ministro al mondo) – il Partito comunista italiano recita un ruolo particolare. È stato il più grande, forte partito comunista in una democrazia liberale. Inizialmente se la giocava con il Partito comunista francese, vero. Il PCF nel 1946 raggiunse un consenso molto alto (28%, più anche del PCI, all’epoca); da allora però declinò, attestandosi intorno al 20% negli anni Sessanta e Settanta, per poi venire superato nettamente dai socialisti di Mitterand. Da noi invece è avvenuto il contrario. Il PCI è diventato quasi subito più forte del PSI ed è rimasto tale, largamente egemone a sinistra, anche negli anni Ottanta. Fino alla fine.Come si spiega? Il relativo ritardo dello sviluppo economico dell’Italia probabilmente ha giocato un ruolo. Nei paesi più arretrati la fascinazione rivoluzionaria ha una presa maggiore, rispetto alla sinistra riformista, lo spiegava già lo storico Eric Hobsbawm. E l’Italia era certo più arretrata, negli anni Cinquanta e Sessanta, rispetto alle altre grandi democrazie occidentali (la Spagna lo era ancora di più, ma lì non si votava: quando tornò alla democrazia, negli anni Settanta, aveva già vissuto un discreto boom economico). A questo tratto di fondo, di tipo «strutturale» direbbero i marxisti, dobbiamo però aggiungere le capacità di Palmiro Togliatti: nel creare il «partito nuovo», nell’indicare una «via italiana al socialismo» che apriva di fatto alla social-democrazia (pur lasciando aperte molte contraddizioni, ideologiche e non solo), e anche nel valorizzare il pensiero gramsciano sì da acquisire un’egemonia culturale nel Paese durata per quasi tutta la Prima repubblica. Toccava forse anche delle corde ancestrali, il binomio Gramsci-Togliatti, per quanto in parte rielaborato ad arte: in fondo è l’idea del padre e del figlio (aveva fatto qualcosa di simile Stalin con Lenin, in Russia, in quel caso stravolgendo letteralmente la storia). Il PSI non poté o non seppe avvalersi di un’iconografia altrettanto efficace (a differenza dei socialisti francesi, che ad esempio avevano avuto Jean Jaurès).Il PCI ha svolto un ruolo fondamentale nel consolidamento della democrazia in Italia, dall’immediato dopoguerra (nonostante il legame di Togliatti con Stalin) fino agli anni di piombo. È stato importante anche nell’incanalare un ribellismo diffuso e storicamente radicato in una prospettiva concreta di emancipazione (si riguardino le scene dei funerali di Togliatti in Uccellacci e uccellini di Pasolini). Prospettiva che di fatto divenne poi riformismo (nel senso più alto) nell’esperienza di governo delle regioni rosse, destinate a divenire un modello anche per altri partiti di sinistra (social-democratici e laburisti) dell’Occidente. Ha svolto anche un ruolo pedagogico, culturale, come scuola di democrazia e di civismo, per i suoi milioni di militanti e simpatizzanti. Poteva essere, da solo, un’ideale che dava senso alla vita: come si capisce benissimo, anche per chi non l’ha vissuto, dal documentario La cosa (1990), che Nanni Moretti ha dedicato alla fine di quel mondo.Riconosciuto tutto questo, c’è una domanda però che bisogna porsi. Ma non sarebbe stato meglio, per l’Italia, avere invece un forte Partito socialista? Non si tratta solo di riconoscere – col beneficio del senno del poi, certo – che i socialisti stavano dalla parte giusta della storia. Nella scissione del 1921, aveva ragione Turati, non Bordiga. Così come probabilmente in Russia avevano ragione Kerenskij e Martov (che eresia!), non Lenin e Trockij. E poi negli anni Cinquanta aveva ragione Nenni a rompere con l’Urss; non Togliatti, a restarci legato ancora troppo a lungo. Non è solo questo. Il punto è che, nell’inscalfibile equilibrio della Guerra fredda, l’Italia apparteneva al campo americano. I comunisti non potevano andare al governo. Erano i socialisti quelli che avrebbero potuto governare e cambiare il Paese. Ma il socialismo riformista italiano è stato dissanguato dalla forza del PCI. Più piccolo, meno radicato nel movimento operaio, il PSI risultava di conseguenza anche meno in grado di attuare un’incisiva politica di sinistra, rispetto ai partiti fratelli europei. Abbiamo avuto un PCI più socialdemocratico, certo (che pure influenzava il governo dall’opposizione, ma non era la stessa cosa). Ma abbiamo avuto anche un PSI più centrista, alleato della Democrazia cristiana. Con quali conseguenze? C’è un dato che stupirebbe un osservatore che non abbia vissuto quelli anni di persona. Ancora nel 1983, il PSI, il PCI, i socialdemocratici e i repubblicani di Spadolini (che dieci anni dopo sarebbe diventato una figura simbolo anche per gli ex comunisti) ottennero la maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Ma che si mettessero insieme per governare, dando all’Italia un governo di sinistra riformista, era semplicemente impensabile. Craxi e Berlinguer erano agli antipodi. Altro che governare assieme! Quella legislatura ci avrebbe consegnato lo scontro più duro all’interno della sinistra italiana di tutta la storia della Repubblica, culminato nel referendum sulla scala mobile. Se i rapporti di forza fra il PSI e il PCI fossero stati capovolti, probabilmente avremmo avuto anche un PSI più di sinistra, avversario diretto della Democrazia Cristiana; e un governo progressista (a guida socialista) sarebbe stato possibile, negli anni Settanta e poi ancora negli anni Ottanta.La storia non si fa con i sé. Lo sanno tutti. Ma i «sé» (cioè i controfattuali) sono fondamentali per capirla, la storia, per valutare gli eventi nella giusta prospettiva. La grande forza del PCI ha determinato (non certo per volontà dei comunisti) una democrazia bloccata. E conseguenza della democrazia bloccata è stato il malgoverno degli anni Ottanta (ad opera di democristiani e socialisti), che ha posto le basi per il declino economico del Paese. Quello che stiamo vivendo ormai da 25 anni, è figlio di quella stagione. Negli anni Ottanta, il ciclo favorevole dell’economia, internazionale e nazionale, offriva margini per una politica riformista volta a risolvere i problemi del Paese (dallo scarso rendimento dell’amministrazione ai bassi investimenti in istruzione e ricerca, al riordino del welfare e della tassazione). Ma la classe dirigente clientelare di allora lasciò invece che quei problemi si incancrenissero. L’Italia stava andando a sbattere contro un iceberg, non lo sapeva, ballava allegramente come nel Titanic di Francesco De Gregori. Il PCI, sulla sponda opposta a quella del craxismo e incapace di una proposta politica efficace, non fu estraneo a questi errori. Di lì a poco, le storie dei due partiti finiranno entrambe. Più o meno insieme. Con il dissolversi della Guerra fredda e il collasso della Prima repubblica. Finiranno con la vittoria ideale dei socialisti, ma con quella politica degli ex comunisti. E in fondo con la sconfitta di tutta la sinistra. Strascichi di quel conflitto si trascineranno per tutta la seconda Repubblica (con buona parte dei socialisti arruolatasi addirittura tra le fila del centro-destra, in ostilità agli ex comunisti). Forse è ora di ricomporre i cocci di questa storia. Che si riconoscano gli errori di Craxi, ma anche i ritardi e le omissioni nella svolta socialista del PCI. Che si riconoscano il genio di Togliatti e la grandezza di Gramsci, ma anche le ben migliori ragioni di Nenni, o le buone riforme fatte dai socialisti specie negli anni Sessanta. Soprattutto, che si riconosca il valore di quella previsione di Filippo Turati, il padre fondatore del socialismo, il riformista, agli scissionisti comunisti del 1921: «voi sarete costretti a ripercorre la nostra via, la via del socialismo. Che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe».